Era una notte buia e tempestosa… Cominciano così tutti i racconti di paura, o no?
La colonia felina di Piazza delle Erbe era intenta alle solite occupazioni. Sopra una cassetta di frutta rovesciata, Kaminski giocava a carte con Lebowski, Polonio e il Professor Scipione. Tra un “busso” e un “volo”, i quattro filosofeggiavano sulla vita e sul mondo, osservando Gregorio che cercava di vendere mazzi di erba gatta ad una comitiva di turisti giapponesi. Il Cavaliere di Lagardère si aggirava sotto il balcone di Lucrezia, e le offriva una gustosa lucertola ancora quasi viva: la bellissima faceva la sdegnosa, ma si leccava i baffi pregustando la succulenta preda. Beauregard e la principessa Beatrice, Bea per gli amici, erano impegnati in un’accanita battuta di caccia al piccione, mentre Betsabea si faceva leggere i tarocchi da Cassandra e perdeva le speranze di rivedere il suo fidanzato, rimasto nel Kurdistan a combattere contro i gatti afgani.
In questo pacifico scenario, irruppe Agata, preoccupatissima. Messi a letto i gattini, si era accorta che Topazia era sparita. Immediatamente, la colonia felina si mise in allarme: i quattro giocatori interruppero la partita a carte, con grande gioia di Kaminski che stava perdendo, Bea e Beauregard lasciarono andare il piccione e Lagardère, sia pure a malincuore, abbandonò il balcone di Lucrezia. Anche Gregorio rinunciò alla comitiva di turisti giapponesi, e tutti insieme frugarono ogni angolo della piazza alla ricerca della piccola Topazia. Niente venne tralasciato: i banconi vuoti del mercato, i cassonetti della spazzatura, le grate di ferro che portavano alle cantine. L’audace Lagardère fece anche un giro per i tetti, e si spinse fino ai vicini cortili della Prefettura, dove viveva una colonia di gatti randagi pericolosissimi. Parlamentò a lungo con il loro capo, il Conte Vronskji, feroce gatto abissino guercio, ma ricevette da lui le più ampie rassicurazioni: tutti volevano bene a Topazia, la gattina d’oro, e nemmeno quei randagi, rifugiati e ricercati dalla polizia felina, le avrebbero fatto del male.
Lucrezia era disperata. Amava teneramente Topazia, era il suo cucciolo prediletto, e non poteva rassegnarsi alla sua scomparsa. La chiamò con accorati miagolii, cercò di attirarla con un topolino freschissimo appena ricevuto in regalo da un ammiratore, ma della micina nessuna traccia. Il gruppo, con le orecchie basse, decise di rivolgersi a Cassandra.
La gatta indovina li accolse con uno sguardo bieco. Aveva appena finito di profetizzare la morte in combattimento del fidanzato di Betsabea, ucciso quella notte stessa in combattimento dai ferocissimi gatti afgani, e sapeva che, come sempre, non sarebbe stata creduta. Così, solo a malincuore mischiò il suo mazzo di tarocchi per scrutare nel destino di Topazia.
La prima carta la fece già rabbrividire, e le seguenti rizzare la pelliccia sulla schiena. Gabbie, umani, prigioni… In preda a grande agitazione, Cassandra andò a cercare la sua arma segreta: una gigantesca lampada che lei sapeva usare come una sfera di cristallo. Gli amici della colonia l’aiutarono a disseppellirla dal suo nascondiglio, un vecchio mobile che il falegname della piazza aveva dimenticato di restaurare, e tutti insieme la trascinarono fino ad una presa elettrica all’interno del mercato. Nonostante la buona volontà di Kaminski, che col suo entusiasmo rischiò di rompere la lampada almeno tre volte, un robusto sforzo di Gregorio e una potentissima testata del professor Scipione permisero al gruppo di accendere la lanterna magica di Cassandra.
La gatta indovina incominciò a fissare intensamente la luce. Nessun occhio umano avrebbe potuto tanto, ma Cassandra era un gatto, per giunta dotato di poteri occulti: dopo alcuni minuti di intensa concentrazione, i suoi grandi occhi cominciarono a distinguere ombre e figure tra i bagliori elettrici. Intravide qualcosa di metallico, il sinistro riflesso di oggetti che somigliavano a… sbarre! La visione si fece più nitida: uno stanzone, enorme, col pavimento coperto da scatole scintillanti, in mezzo alle quali si aggiravano figure alte, a due zampe. Non c’erano dubbi, si trattava di umani, e le cose sul pavimento erano gabbie. Cassandra mise a fuoco un particolare della visione: in mezzo al freddo colore del metallo, aveva scorto un bagliore dorato. Era Topazia! Una delle figure a due zampe la teneva per la collottola, e la mostrava ad un altro individuo con un camice bianco.
Cassandra chiuse gli occhi. Aveva capito che gli umani stavano preparando un’altra di quelle operazioni che suscitavano il massimo allarme nella colonia di Piazza delle Erbe. Con un deciso colpo di coda, chiamò a raccolta Gregorio, Beauregard e Lagardère.
“Controllo della popolazione felina” – sussurrò con voce sepolcrale.
“Cooosaaaa???” – esclamarono tutti gli altri. “Ma di’, Cassi, stai dando i numeri come al solito?”
“Per favore, amici, credetemi per una volta. In fondo ci ho sempre azzeccato sulle disgrazie, no? Vi dico che ho visto i bipedi preparare un altro attacco. Ricordate la primavera scorsa, quando erano venuti a portare via tutte le mamme con i cuccioli, e riuscimmo a salvare solo Topazia? Sta per succedere la stessa cosa, e bisogna avvisare subito il Conte Vronskji: loro saranno i primi, e dopo toccherà a noi”.
Fu il professor Scipione a decidere per tutti:
“Banda di lavativi, se foste stati più attenti a scuola, dalle mie lezioni vi ricordereste della profetessa Cassandra, che aveva avvisato i Troiani dell’inganno preparato da Ulisse, e della città distrutta perché nessuno le credette! Almeno fate uno sforzo, cercate di pensare all’ultima azione di “Controllo della popolazione felina” e a quanti di noi sono tristemente e prematuramente scomparsi… Avanti, rimboccatevi la pelliccia sulle zampe, code in spalla, e corriamo ad avvisare il Conte Vronskji”.
La colonia felina era ancora un po’ esitante, ma Agata ricordò a tutti che Topazia era sparita, ed era necessario mettere in pratica ogni tentativo per ritrovarla. Non era facile parlamentare con la colonia dei randagi, ma Lagardère e il Conte Vronskji erano gatti d’onore e nutrivano reciproca stima, così una piccola delegazione si avvicinò ai cancelli della prefettura e chiese un incontro con lo Stato Maggiore dei Randagi.
Cassandra raccontò la visione avuta davanti alla lampada, e il Conte Vronskji non dubitò: era scappato da troppe gabbie per non riconoscerle negli oggetti di metallo scintillante che erano apparsi alla gatta indovina. Vronskji chiamò a raccolta le sue truppe e preparò l’esodo. Per esperienza sapeva che la battuta di caccia messa in atto dagli umani non sarebbe durata più di quindici giorni, durante i quali la loro colonia si sarebbe rifugiata nelle cantine intorno alla piazza.
I gatti di Piazza delle Erbe, per la prima volta, furono autorizzati ad entrare nei misteriosi giardini, per aiutare i randagi ad evacuare anziani e micini. Come sempre, Agata si occupò dei piccoli, questa volta aiutata anche da Beatrice, Betsabea e Lucrezia. Era necessario portare in bocca quelli che non sapevano ancora camminare, così furono chiamati al lavoro anche Kaminski e Beauregard, sempre recalcitranti quando c’era da faticare; intanto Scipione, Polonio e Lebowski si occupavano di convincere i gatti anziani a lasciare per un po’ di tempo gli amati nascondigli. Dai giardini partì una strana processione: Lagardère e il Conte Vronskji, insieme allo stato maggiore dei randagi, aprivano la strada, diretti alle cantine che conoscevano bene. Poi seguivano le gatte coi micini, alcuni in bocca, e i più grandicelli zampettanti in mezzo a loro. Insieme alla popolazione felina adulta, il professor Scipione e gli amici aiutavano gli anziani a trasportare i mazzi di carte e i comodi cuscini a cui non avrebbero rinunciato per tutta l’erba gatta del mondo. Gregorio chiudeva la processione, occupandosi delle riserve vinicole.
Le cantine del quartiere offrivano comodi e sicuri rifugi: gli umani ormai non le frequentavano più, perché erano umide e inabitabili, inadatte ad ospitare le loro delicate masserizie, così vulnerabili alla muffa. Purtroppo la mania delle ristrutturazioni restringeva sempre di più lo spazio che poteva accogliere una colonia felina numerosa e prolifica: da un momento all’altro, una vecchia casa veniva sventrata, le cantine distrutte, i cortili ricoperti di cemento, e addio erba, topi, lucertole, e tranquilli rifugi per cacciare ed amoreggiare…
Una volta che la colonia dei randagi ebbe trovato alloggio nelle cantine disponibili, fu il momento di organizzare il presidio nei giardini rimasti deserti. Il Conte Vronskji sapeva che gli umani con le gabbie sarebbero arrivati, e voleva tenerli sotto controllo. Con il suo stato maggiore, si appostò nelle tane di osservazione, per seguire le fasi del cosiddetto “Controllo della popolazione felina”. Era così chiamata un’operazione che periodicamente veniva messa in atto dall’amministrazione comunale, a cui si rivolgevano i cittadini che odiavano gli animali, specialmente i gatti, sempre malvisti da chi si sente offeso dalla bellezza e dall’indipendenza. Molti umani potevano tollerare il cagnolino al guinzaglio, pronto a scodinzolare per avere il suo osso, ma perdevano il lume della ragione alla vista delle flessuose creature che non avevano bisogno di loro. Così invocavano azioni di “pulizia etnica” in nome dell’igiene: come se ci fosse creatura più pulita di un gatto…
L’attesa fu lunga, ma il felino, si sa, è paziente: dopo tre giorni, videro arrivare gli umani e li osservarono mentre disponevano le gabbie nel loro giardino. Il piano era ben noto, e sperimentato: non dare alcun segno di vita, e attendere che gli umani, stanchi di aspettare, smontassero i loro attrezzi di tortura e se ne andassero. Di solito, per incoraggiarli, facevano trovare nelle loro gabbie qualche grosso topo di fogna inferocito, e se la ridevano nascosti sui tetti. Il felino, si sa, è anche spiritoso.